La luna in vinile: “Space Oddity” di David Bowie

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Non basterebbe un’enciclopedia per citare tutti gli artisti che si sono rivolti alla luna nella storia dell’umanità, ad ogni latitudine e longitudine. Prima dell’avvento delle moderne tecnologie che permettono di raccogliere dati e prevedere i fenomeni naturali, le fasi lunari hanno sempre scandito la vita delle persone. Basti pensare ai marinai che guardavano alla luna per capire quando era il momento buono per mettersi in viaggio, ai contadini che cercavano risposte sulla ricchezza dei raccolti, alle coppie che tentavano di procreare. Ancora oggi funziona così, ma per anni la luna ha fatto in toto le veci di app, report e pubblicazioni di settore.

Naturale se ci si pensa che poeti e scrittori l’abbiano celebrata nel corso dei secoli: senza andare troppo lontano nel tempo, possiamo ricordare il Canto XIV di Leopardi “Alla Luna” che molti di noi hanno studiato al liceo (“[…] alle mie luci il tuo volto apparìa, che travagliosa era mia vita: ed è, nè cangia stile, o mia diletta luna”) e uno dei primi lungometraggi della storia del cinema, intitolato appunto “Viaggio sulla luna”, in cui Melies nel 1902 si divertiva a portare sulla luna i signori parigini dell’epoca.

Il rock ha avuto il privilegio e la fortuna di vivere una delle sue stagioni magiche contemporaneamente alla conquista dello spazio: insieme al cinema è stata forse la forma d’arte che ha saputo raccontare meglio i desideri, le paure, le angosce dell’uomo di fronte all’ignoto.

La navicella spaziale di “2001 Odissea nello spazio”, con gli uomini fluttuanti in assenza di gravità sulle note dell’ “Bel Danubio Blu” di Strauss, è entrata da subito nell’immaginario collettivo fin dall’uscita del film nel 1968. Kubrick ha sempre assegnato alla musica un ruolo da protagonista nelle sue opere tanto da ispirare, per ammissione stessa dell’autore del pezzo, uno dei brani più importanti della storia del rock.

David Jones era un ragazzo appena 21enne che aveva appena intrapreso la carriera di musicista quando vide per la prima volta il capolavoro di Kubrick in un cinema di periferia a Londra. Ci tornò varie volte in quei giorni e quando ne ebbe abbastanza, usci anche lui con qualcosa in testa.

Non sapeva che quella canzone avrebbe consacrato lui, diventato nel frattempo David Bowie, nell’Olimpo degli dei immortali del rock.

“Space Oddity” infatti non è un semplice brano musicale, ma una vera e propria odissea nello spazio in più atti che ha luogo preferibilmente su un supporto in vinile.

I protagonisti sono un operatore della torre di controllo e il maggiore Tom, l’astronauta che si trova sulla navicella spaziale pronta al lancio nello spazio. La voce di Bowie e gli accordi di chitarra all’inizio sono appena percettibili: è chiara la tensione che si respira nell’aria quando inizia il countdown e si spera che Dio benedica la missione (“make God’s love be with you”).  Ascoltate una qualsiasi intervista a un’astronauta o uno scienziato della Nasa di quegli anni e percepirete lo stesso senso di angoscia e fatalismo.

Appena concluso il countdown, ecco una vera e propria onomatopea: la chitarra di Bowie quasi esplode nel simulare il lancio. Subito dopo però la sua voce mostra sollievo: la torre di controllo comunica al maggiore Tom che il punto critico è stato superato (“you really made the grade”) e adesso se ha coraggio può andare ad esplorare lo spazio (“now it’s time to leave the capsule, if you dare”).

L’astronauta dice che è tutto bellissimo, tuttavia quell’immensità è strana, diversa da come se la immaginava (“the stars look very different today”), tanto da renderlo subito impotente (“planet earth is blue and there’s nothing i can do”).  Capisce che non è più possibile tornare indietro. La navicella si allotana e lui non può fare altro che iniziare a fluttuare nell’infinito: l’ultima comunicazione con il Ground Control  è un dolcissimo ed estremo saluto alla moglie (“tell my wife i love her very much, she knows”) . Da lì i tentativi di contatto da parte della torre di controllo saranno inutili: la galassia lo ha già inghiottito per sempre.

“Space Oddity” è il punto iniziale e probabilmente più alto del “periodo spaziale” David Bowie, che di lì a poco avrebbe prodotto sullo stesso tema capolavori come “Life on Mars”, “Starman” e l’autobiografico “Ziggy Stardust”.  Il pezzo non fu accolto bene per lo stile troppo acustico, ma nel giro di qualche anno fu rivalutato da critica e pubblico. Ai nostri orecchi oggi risulta perfetto nella sua semplicità e nel modo in cui la musica culla le nostre emozioni: se si chiudono gli occhi è facile per chiunque immaginare e vivere con commozione tutta la scena raccontata nel brano.

Un altro aspetto che stupisce è la perfetta contemporaneità con la missione dell’Apollo 11: Il brano uscì l’11 luglio del 1969 e nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1969 fu la colonna sonora scelta dalla BBC per la diretta dello sbarco sulla luna.

Negli anni seguenti la luna è stata raccontata in tanti diversi da vari artisti: dai Police di “Walking on the Moon” ai REM di “Man on the Moon”.  Impossibile poi non citare l’iconico album del 1973 dei Pink Floyd, “The Dark Side of the Moon”, che meriterebbe un’analisi a parte per la complessità dei temi trattati e della ricerca musicale. Qui il lato oscuro della luna diventa metafora del cervello umano, del “lunatico” che è in ognuno di noi, anche se in alcuni pezzi come “The Great Gig in the Sky” l’orecchio dell’ascoltatore si apre verso le stelle e l’infinito.

Sono però tutte opere che vivono la luna come metafora, ma non più come mistero. Come riportato nel bellissimo articolo di Gabriele Romagnoli su “Robinson” di Repubblica del 13 luglio 2019, dal momento stesso in cui l’uomo ha compiuto quel piccolo passo sulla superficie lunare è come se si fosse persa quella brama di conquista che portava ogni forma d’arte, non ultima la canzone, a interrogarsi su di essa.

“Space Oddity” non è né precedente, né successiva a quella perdita: è semplicemente quella perfetta linea di demarcazione che, come un solco su un vinile, racconta l’incontro fra l’uomo e la luna.