Il diritto di opporsi: la storia vera di Bryan Stevenson

Share

Il diritto di opporsi è la storia vera di un grande avvocato americano, Bryan Stevenson, che opera ancora oggi la sua professione, dirigendo l’EJI – l’Equal Justice Initiative, l’organizzazione senza scopo di libro che ha fondato per difendere e rappresentare i detenuti nel braccio della morte.

La missione della sua vita.

Mi ha molto commosso il racconto di Stevenson sulla sua decisione di occuparsi dei più deboli e di chi non ha più speranza di essere difeso e salvato da una pena. Tra gli anni ’70, ’80 e ’90, nella zona meridionale degli Stati Uniti (tra l’Alabama e la Georgia), ripresero con più vigore le esecuzioni per i condannati a morte che, dopo lunghi anni nel braccio della morte, venivano giustiziati senza avere diritto nemmeno di un avvocato d’ufficio.

Mentre studiava legge ad Harvard, Stevenson scoprì (una scoperta fatidica!) un corso intensivo sui processi a sfondo razziale e legati alla povertà: da quel momento capì qual era la sua missione, quella a cui si è dedicato per tutta la vita fino ad oggi.

Commuovente il suo primo incontro con un detenuto ingiustamente nel braccio della morte del quale ricorda la profonda umanità. Una umanità che ha reso Stevenson consapevole del potenziale umano, della redenzione e della fiducia.

Il libro inoltre offre moltissime notizie e statistiche sulle pene estreme in America, “una nazione che nel 1983 stava diventando sempre più inclemente e punitiva con numeri impressionanti di detenuti“: il lavoro di Stevenson sarà necessario per ottenere non solo la scarcerazione di oltre 100 detenuti ingiustamente condannati a morte, ma anche per limitare le pene, eliminare le esecuzioni dei detenuti incapaci di intendere, dei disabili,inchieste innovative sulla schiavitù e il linciaggio.

Si tratta di un grande lavoro raccontato attraverso i processi di cui si è occupato nel corso della sua attività (per la quale ha potuto contare solo sull’aiuto dei donatori e di qualche finanziamento statale) e in particolare attraverso la storia di Walter McMillian.

Una storia lunga e travagliata, testimonianza dell’odio razziale di quegli anni e che, alla fine, Stevenson commenta così:

“Il caso di Walter mi aveva insegnato che la paura e la rabbia sono una minaccia per la giustizia, possono infettare una comunità, uno Stato, una nazione e possono renderci ciechi, irrazionali e pericolosi. Mi aveva insegnato che la pena di morte non verte attorno al fatto se le persone meritino di morire per i crimini che commettono. La questione vera riguardo alla pena capitale è: noi meritiamo di uccidere?”

La storia di Walter si conclude bene anche se dire “bene” è un parolone, dal momento che la vita di una persona, rinchiusa per anni senza motivo in un luogo che fa puzza di carne bruciata per le esecuzioni sulla sedia elettrica, non può di certo essere più la stessa, nonostante la libertà. Inoltre, una volta uscito, Walter purtroppo dovrà fare i conti con tutti i mostri che non possono andare via dalla sua mente e della sua anima. Un uomo davvero sfortunato.

Stevenson ha ottenuto molti successi ma anche tante sconfitte e amarezze. Non sempre è riuscito a salvare i detenuti, nemmeno dall’esecuzione a cui ha assistito inerte.

Molto toccante quando, dopo l’esecuzione di un suo cliente (Jimmy Dill), afferma:

“Dopo oltre 25 anni di lavoro, capii che quello che faccio non lo faccio perché è dovuto, necessario o importante. No.n lo faccio perché non ho scelta. Faccio quello che faccio perché anche io sono distrutto. Stare vicino alla sofferenza, alla morte, alle esecuzioni e alle pene crudeli non aveva semplicemente messo in luce la distruzione degli altri; in un momento di angoscia e dolore straziante, aveva mostrato anche la distruzione che era dentro di me”.

Un libro davvero toccante e che mette in luce un grosso problema ancora attuale in molti Stati d’America. Dal film hanno tratto anche l’omonimo film.