Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli: siamo come una piuma?

Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli

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E’ il primo libro che leggo di Daniele Mencarelli e ringrazio il Premio Strega per avermi messo sulla sua strada (come sapete vorrei arrivare pronta, con il mio gruppo di lettura).

La prima parola che mi viene in mente, ripensando al viaggio fatto con Daniele in Tutto chiede salvezza è: eleganza.
Mencarelli, in questo romanzo in cui il protagonista narra in prima persona portando il suo nome (è infatti tratto da una vera esperienza), mette a nudo la fragilità dell’animo umano e lo fa con un linguaggio così elegante, sincero, sentito che avvolge completamente l’anima del lettore.

Basterà a Daniele una settimana di Trattamento Sanitario Obbligatorio per “mettere a posto” ciò che non va della sua vita?
Ha solo 20 anni e in quella settimana di giugno (dal 14 al 20) vede succedere tante cose, persino la prima partita dei mondiali 1994, all’interno di una struttura in cui imparerà qualcosa in più di se stesso non attraverso i colloqui con i medici ma grazie “ai cinque pazzi” con cui ha condiviso la stanza e con cui non ha mai mentito.

Ma cosa ha che non va Daniele? Perché non riesce ad essere “normale”, a provare felicità quando è giusto provarla e tristezza quando c’è da essere tristi? Perché passa da momenti euforici di assoluta gioia e onnipotenza a momenti distruttivi per se stesso e gli altri?

Perché l’amore della famiglia e degli amici non riesce ad appagarlo?
Probabilmente perché la paura di perdere l’amore e gli affetti più cari è più grande di qualsiasi altra cosa. Questa è stata la mia risposta a una lettura fatta in poche ore, tanto è coinvolgente, poetica, sentita.

Una grandissima commozione mi ha accompagnata in ogni pagina; i pensieri di Daniele sono diventati i miei; la stanza con i cinque compagni ha accolto anche me tanto da immaginare benissimo la disposizione dei letti, della finestra dove, da ultimo, si consuma una tragedia, del bagno puzzolente e dei comodini contenenti i pochi effetti personali.

Ho mangiato con Daniele e i suoi cinque compagnia la brodaglia ogni sera e le mele cotte, ho percepito il dolore di ogni mente, capito i gesti, sofferto d’insonnia.

Ho vissuto la settimana più ricca e intensa della mia vita da lettrice, perché ho capito che tutti vogliamo “la salvezza” e non riusciamo fino in fondo a capire e ad accettare la morte.

“Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo.
Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza.
Salvezza per me, per mia madre, per tutti i figli e tutte le madri, e i padri e tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri.”

Daniele, oltre che delle sue, si carica anche della disperazione degli altri. Vorrebbe avere “una corazza, un’armatura del miglior ferro, capace di tenerlo distante dalle cose, per non disperarsi per la disperazione degli altri“.

E’ un romanzo dove, accanto alla disperazione di un luogo descritto con tanta veridicità, ho trovato tanta poesia e un messaggio davvero importante: la capacità di guarigione affidata alle parole.

Sin dai primi colloqui con i medici, infatti, Daniele racconta il suo amore per le parole:

“Ho capito che la scrittura non è un gioco, ‘na noia come me l’avevano sempre raccontato, ho capito a che serve veramente, e che è l’unico mezzo che può raccontare quello che vedo, che mi esplode dentro”.

E infatti la poesia ha sempre accompagnato la vita di Daniele che, anche nel corso della sua settimana in TSO, ha trovato sfogo in un componimento bellissimo, la parte più bella e toccante del libro per me:

Sei sempre tu che vieni a riprendermi
ne è piena la memoria
di te che spunti e mi porti via,
alle scuole tutti i malori
li fingevo per vedere il tuo arrivo,
fino a oggi dove niente si finge
ed è vero il male che mi spezza,
e quanto più è atroce aspettarti,
passato dai banchi
a questo bianco lettino“.

Più che la scienza, la medicina, il trattamento sanitario obbligatorio, sembra chiaro che per Daniele, ma anche per i suoi cinque compagni di stanza, le parole possono avere maggiore efficacia e potere curativo.

Perché riservare le parole solo ai sani di mente?

“Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. Questo abbrutimento è la scienza?

Chiudo, infine, questo post con una domanda in romanesco (diletto che ricorre spesso), invitandovi a leggere questo libro perché sono certa che lo vedremo in finale Premio Strega:

“Possibile che nessuno s’accorge che semo come ‘na piuma? Basta ‘no sputo de vento pe’ portacce via”.