Ulisse di Joyce e i Fontaines D.C.: Dublino ieri e oggi

Ulisse di Joyce e i Fontaines D.C.

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Bloomsday.

Basterebbe il titolo della traccia finale del lato A dell’ultimo album dei Fontaines D.C. per certificare una delle combo #libriemusica più evidenti di sempre. Una band formata da dubliners, ragazzi di Dublino che con il loro terzo album “Skinty Fia” hanno ottenuto il quasi totale elogio della critica e una sempre maggiore attenzione da parte del pubblico. Il dubbio a questo punto è solo se ci troviamo di fronte solo a un bel disco o a uno di quegli album che resisteranno al tempo per entrare nell’ Olimpo degli evergreen.

Di Joyce e del suo capolavoro “Ulisse” si sa praticamente tutto, dei Fontaines D.C. forse quasi niente, vista la crisi ormai annosa (o il vittimismo?) che la musica rock vive nei confronti di altri generi di consumo. Eppure il legame fra questi dublinesi divisi da un secolo di storia va ben oltre il luogo di nascita, perché per chi non lo avesse capito quel “D.C.” sta proprio per “Dublin City”.

“Ulisse” è il capolavoro modernista per eccellenza, opera letteraria in cui ancora prima che sulla trama l’attenzione dell’autore va al linguaggio e ai suoi molteplici modi di diventare discorso scritto. Nel seguire le avventure di Stephen Dedalus e Leopold Bloom in giro per Dublino, Joyce usa ben diciotto stili diversi, uno per ogni capitolo: dalla prosa tradizionale a quella aulica, dagli improvvisi flussi di coscienza a copioni da sceneggiatura teatrale. E poi il costante riferimento alla storia e soprattutto al mondo classico (l’Odissea di Omero) per tratteggiare una città caotica eppure ferma, un popolo ormai libero dai dominatori inglesi ma sempre incatenato a loro, non si sa se per avversione o comodo. Come se l’Irlanda fosse incapace di progredire proprio perché inconsapevole della propria identità.

“Skinty Fia” dei Fontaines D.C. parte con la lingua della tradizione (il gaelico) e andando avanti sottolinea in più punti il rapporto complicato fra irlandesi e inglesi, cent’anni dopo Joyce. Il titolo stesso è in lingua gaelica e si riferisce a una imprecisata “dannazione del cervo” (animale storico irlandese) che evoca autocommiserazione, oppressione e paralisi. Il concept dell’album è ispirato alla storia reale di una donna irlandese, una Evelyne joyciana dei nostri giorni, a cui la chiesa anglicana ha negato di scrivere “In ár gCroíthe go deo” sulla tomba. Una frase che significa “Nei nostri cuori per sempre”, che se scritta in gaelico poteva essere vista come una provocazione. Corsi e ricorsi storici, tensioni e preconcetti che non sembrano voler cambiare mai.

Anche qui, come in “Ulisse”, immobilismo e slanci improvvisi vanno avanti nel corso del disco seguendo una falsa riga quasi modernista. Solo che il classici di riferimento qui sono sopattutto Nirvana, Cure, Smiths, Joy Division, Primal Scream e Echo & The Bunnymen. Con un po’ di Oasis, che non guasta mai.

Il disco migliore del 2022 per distacco e il libro più importante del secolo scorso.

Basta a farci venire la voglia di leggere, se non tutte le 741 pagine di Ulisse, almeno il monologo di Molly-Penelope con in sottofondo il vinile di “Skinty Fia”?

Abbiamo parlato di Ulisse di Joyce anche in un altro articolo, con in sottofondo la musica di un altro grande gruppo.