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Moby Dick, la Bibbia e Bob Dylan

Un angolo dei vinili speciale quello unisce uno dei classici della letteratura mondiale, “Moby Dick” di Herman Melville, con la produzione artistica del premio Nobel per la letteratura 2016, Bob Dylan. Un collegamento naturale, visto che Dylan ha citato proprio “Moby Dick” nel suo discorso alla ricezione del Nobel.

Come ha detto giustamente Marco Archetti in un pezzo su “Il Foglio” del 28/3/21, la grandezza di opere come “Moby Dick” è anche quella di non andare mai per significati frontali: “Melville racconta di una balena, Gogol di un cappotto, Kafka di uno scarafaggio”. Ma la verità è ben oltre la semplice trama: “quello di cui parla un grande romanzo non è mai ciò di cui parla”.

La storia narrata in “Moby Dick”,  che abbiamo letto nella traduzione italiana di Cesare Pavese (come dire un’opera nell’opera) inizia con una frase consegnata al mito: “Chiamatemi Ismaele”.  E’ un modo per identificare il narratore come un uomo qualsiasi, un insegnante del Massachussets che nel mezzo del cammino della propria vita sente il desiderio di dare un taglio al passato salpando per mare. Ma è anche il primo riferimento biblico, con il nome del figlio di Abramo. Melville descrive magnificamente il richiamo irresistibile che il mare esercita verso alcune persone, facilmente comprensibile per chiunque si fermi ad osservare chi a sua volta rivolge lo sguardo all’orizzonte da una spiaggia o dalla banchina di un porto.

Mistero, ignoto, pace, passione, avventura: ecco gli elementi che spingono Ismaele a imbarcarsi sulla “Pequod” e andare a caccia di balene.

La prima parte del romanzo si svolge in realtà sulla terraferma, a Nantucket, un’isola popolata da marinai specializzati in caccia alle balene. Qui Ismaele farà conoscenza con Queequeg, un selvaggio che diventerà suo amico prima e compagno di avventure poi, con il quale vivrà l’episodio centrale dell’inizio di “Moby Dick”. Si tratta del lungo e dettagliato sermone nella chiesa del villaggio, in cui il pastore racconta l’episodio biblico di Giona, ingoiato dalla balena e poi salvato per volere divino: il lettore scoprirà solo alla fine che la lunga digressione in realtà rappresenta la chiusura del cerchio.

Arriva finalmente il momento di salpare. Il viaggio alla caccia delle balene inizia con momenti di calma, in cui Melville ne approfitta per farci conoscere i membri dell’equipaggio: i due sottoufficiali Stubb e Starbuck (si, non c’entra nulla ma lo diciamo: il nome della catena di caffè deriva da lui), i ramponieri, i cuochi, tutti gli altri marinai ma soprattutto il capitano Achab, vero protagonista del romanzo.

La presentazione della sua figura, spettrale e affilata, incute nel lettore un certo timore, come se ci fosse  un qualcosa di sinistro ad accompagnarlo, per non dire di demoniaco. Quest’uomo dai modi bruschi rivela a breve la vera natura del viaggio della “Pequod”: non si tratta di andare a caccia di capodogli per fini commerciali, ma di trovare Moby Dick, la balena bianca che gli aveva portato via una gamba qualche anno prima.

In questa vendetta personale Achab coinvolge l’intero equipaggio e non c’è niente che possa pensare di fermarlo, né l’incolumità dei suoi sottoposti, né le preghiere di altri capitani di navi che incontra nel lungo percorso in mare.

La sua ossessione è tanto forte quanto a tratti incomprensibile: facile leggerci la necessità di qualsiasi uomo di trovare una ragione di vita o forse un nemico da combattere.

Moby Dick non si palesa subito: la troveremo solo dopo una lunga navigazione negli oceani di mezzo mondo, negli ultimi capitoli. Prima ci sono momenti in cui si alterna la caccia alle balene, ad altri in cui il romanzo sembra diventare un autentico trattato scientifico sui capodogli e la loro classificazione. La sfida per il lettore è anche superare questi capitoli, perché la ricompensa dell’ultima parte sarà più che adeguata.

Dal momento in cui Moby Dick viene avvistata fino al combattimento finale, la narrazione diventa avvincente e ricca di una tale tensione epica da dare ragione a Cesare Pavese,  che nell’introduzione ci avverte: “Leggete quest’opera tenendo a mente la Bibbia […] vi si svelerà per un vero e proprio poema sacro a cui non sono mancati né cielo e né terra”.

Eccoli allora finalmente svelati, tutti i riferimenti e i dualismi di Moby Dick: la lotta eterna del bene contro il male, ma anche quella dell’uomo contro una natura spesso indifferente, com’è Moby Dick inizialmente di fronte all’odio cieco di Achab. La balena può rappresentare anche la ricerca di Dio, che è il più chiaro collegamento che ci può essere all’opera di Bob Dylan: un Dio che non è misericordioso, ma piuttosto castigatore di fronte a pulsioni come la rabbia o la rivalsa. Occorre infatti leggere il romanzo pensando al contesto puritano dell’America di metà Ottocento, un modo di intendere il rapporto con Dio molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati dalla tradizione cattolica, anche in letteratura (si pensi alla “Provvidenza” di Manzoni).

I testi di Bob Dylan non parlano apertamente di Dio, ma se ne sente la presenza nella ricerca costante di un senso profondo della vita.

La risposta alle nostre domande “soffia nel vento” e provare a mettersi contro un essere superiore non può che portare alla resa, come accade per Achab e di conseguenza per tutto l’equipaggio della “Pequod”. Non c’è scampo, se non per un unico uomo che si incarna in Giona. Non sveliamo di chi si tratta.

La lettura di Moby Dick, come l’ascolto delle canzoni di Bob Dylan, richiede uno sforzo importante da parte del lettore, una sorta di sfida se vogliamo. Se le parti iniziali e quella finale lasciano il segno in chiunque ami le grandi storie, se le ultimissime pagine portano a chiudere il libro commossi ed emozionati, lo stesso non si può dire per le pagine centrali, specie quelle in cui da romanzo letterario si sconfina nell’argomento scientifico e tassonomico. Qui, come diceva Pennac, potrebbe essere diritto del lettore saltare le pagine. Sono da sottolineare poi i repentini cambi di punto di vista della narrazione, che potrebbero confondere alcuni lettori: dalla prima persona di Ismaele si passa al flusso di coscienza dei personaggi, fino alla terza persona di Melville stesso, nei panni di studioso delle specie marine. Tuttavia a noi questo spirito anticipatorio di certa letteratura del Novecento (pensiamo a Joyce) è piaciuto molto.

Le ultime cento pagine pensiamo tuttavia non abbiamo pari, se non scomodando altre opere della storia della letteratura che hanno messo al centro l’essere umano. 

C’è il pathos di una grande avventura in cui ci sentiamo coinvolti tutti, dal primo fino all’ultimo.

C’è una lotta contro una balena bianca che (per quello che rappresenta) ognuno di noi ha fatto nella propria vita.

Ci siamo noi, insieme ad Achab, Ismaele, Starbuck e Queequeg, con il rampone in mano, in mezzo ai flutti, a combattere per restare vivi.

In “Moby Dick” non tutti usciranno a rivedere le stelle, questo possiamo dirlo.

Nelle nostre vite invece sì: alla fine è sempre una questione di scelte.

D’altronde Starbuck, poche pagine prima della fine aveva tentato di far desistere Achab dal suo folle proposito, senza però sortire effetto positivo.

Maledetta superbia dell’uomo che pensa di agire per volere divino, sostituendosi così a Dio.

Linkografia

Marco Archetti – “Accortezze utili se proprio è necessario scrivere romanzi sulla pandemia”

https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/03/27/news/accortezze-utili-se-proprio-e-necessario-scrivere-romanzi-sulla-pandemia-2080419/

Jean Pierre Sonnet – “Le radici bibliche del «Moby Dick» di Melville”

https://www.avvenire.it/agora/pagine/moby-dick

Michelangelo Socci – “Bob Dylan ha capito che Moby Dick è Dio”

https://www.paologulisano.com/bob-dylan-ha-capito-che-moby-dick-e-dio/
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