Con “I bambini di Svevia” sono arrivata alla fine del viaggio di Edna, sentendo mie le fatiche di una donna che mi resterà impressa per lungo. Ne sono certa.
Non è un caso che io parli del libro di Romina Casagrande, “I bambini di Svevia” (Garzanti), proprio nella settimana che ci porta verso la Giornata della Memoria perché, anche se la storia raccontata dalla scrittrice risale agli anni prima della seconda guerra mondiale (dal 1700 alla metà del 1900), riporta alla luce delle vicende dimenticate e che hanno purtroppo segnato la vita di molti bambini.
Ho apprezzato moltissimo la costruzione della storia tra presente e passato e l’espediente del viaggio per tappe: ho viaggiato verso qualcosa che ho scoperto pian piano, proprio perché al racconto delle vicende di Edna, novantenne, si alternano quelle di Edna, bambina.
E così ho scoperto che molti bambini del nord Italia venivano venduti dalle famiglie per andare a lavorare nelle fattoria dell’alta Svevia, portati via attraverso un itinerario difficile e impegnativo e in condizioni climatiche tutt’altro che semplici.
Il viaggio di Edna, seguendo la vecchia mappa disegnata da bambina, è un percorso di arricchimento, il punto di arrivo di un’intera vita. I personaggi che incontra lungo il cammino offrono ad Edna un’importante consapevolezza: chiunque serba un rammarico nel cuore o ha qualcosa da aggiustare. Spesso la paura di parlare e fare il primo passo, crea una frattura sempre più grande ma che non è impossibile rimarginare.