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Chiamarsi Smiths: la convalescenza di Mrs Dalloway

Il collegamento di questa settimana è nel racconto delle nostre giornate qualunque, di questi tempi. Giornate a cui tutti vorremmo tornare e in cui magari pensavamo già di trovarci, dalla fatidica data del 4 maggio 2020. Come se nulla fosse successo. Invece no. Quello che ci sta capitando (perché ci siamo ancora dentro, non ci illudiamo) non so proprio dire se ci cambierà tutti quanti, ma di certo qualcuno sì.  Prendete me: ho ripreso in mano romanzi classici che non avevo mai avuto il coraggio di aprire, superato preconcetti adolescenziali su alcuni film e gusti musicali, ammesso davanti allo specchio che i Radiohead sono uno dei più grandi gruppi di sempre, nonostante l’antipatia atavica che nutrivo per loro negli anni ’90. Tutte quelle recensioni positive sulle riviste che non erano riservate ai “miei” Brit Pop inglese o Grunge americano. Puah.

Per quanto mi riguarda non sono più quello di prima. Mi chiedo piuttosto come fosse Mrs Dalloway prima della malattia, visto che Virginia Woolf non ce l’ha mai fatto sapere.

Mrs Dalloway certo non fa simpatia. Si potrebbe definire l’alter ego femminile di Morrissey,la voce di The Smiths, sessant’anni prima e su altre pagine. E’ chiusa, scorbutica, incapace di qualsiasi slancio o sentimento.  Convenzionale, puritana, inglese nel senso più stretto e ristretto del termine: ai giorni nostri sarebbe stata una perfetta sostenitrice della Brexit, proprio come lo è Morissey, caso più unico che raro in un mondo artistico che – si sa – guarda sempre a sinistra.

La vicenda narrata nel romanzo si svolge in un giorno, esattamente come l’ “Ulisse” di Joyce, e Virginia Woolf ce la racconta con uno stile che ricorda molto il fluire di coscienza (mindfullness),  secondo un’inclinazione particolare della letteratura inglese (e non solo) di inizio secolo. Accanto alla sua si svolgono altre storie, in un insieme di percorsi e ruoli che rimandano alla società anglosassone di quegli anni. Fra tutte spicca la figura di Septimus Smith, il cui cognome probabilmente è stato scelto da Virginia Woolf per lo stesso motivo per cui i “The Smiths” hanno deciso di chiamarsi così: è il cognome dell’uomo qualunque inglese, quello che ha sentimenti comuni, un lavoro normale, il suo bel fardello di rimpianti e in fondo una vita grama.

Se Mrs Dalloway, eterna convalescente di una mai citata (ma per noi chiarissima) malattia, pare accettare in maniera convenzionale il ruolo che le ha dato la società, Septimus dal canto suo non ci sta: l’unico modo per sfuggire alle “non scelte” del passato è la negazione della vita stessa, ovvero il suicidio.

Virgina Woolf espone con maestria le vicende umane e i pensieri dei due veri alter ego della vicenda, facendo incrociare i loro destini all’inizio e alla fine di quel giorno del giugno 1923 a Bond Street, Londra. Nell’ultimo capitolo infatti Mrs Dalloway viene raggiunta dalla notizia del suicidio di Septimus mentre prepara un party in casa, poche ore dopo aver ricevuto in maniera del tutto inaspettata la visita dell’amore della sua vita. In quel momento si trova con persone per cui in fondo non prova alcun sentimento (marito compreso) e in maniera perfettamente coerente con il suo personaggio si mostra incapace di qualsiasi gesto di empatia. Virgina Woolf ci fa leggere fra le righe qualcosa di ancora più terribile rispetto a un carattere gelido: l’invidia per il suicida. Mrs Dalloway sa bene, pur non ammettendolo mai,  che l’unico modo vero gesto di ribellione a tutto quello in cui si trova imprigionata è andare incontro a una dolce morte.

La stessa morte di cui parla Morrissey con i suoi The Smiths in uno dei brani più belli della loro produzione, “There is a light that never goes out”: la ritmica incalzante e allegra contrasta con il testo “nero”, in cui si dice che per due amanti felici anche una morte improvvisa sarebbe stata dolce, se vissuta insieme. Questo è il motivo per cui quella luce è destinata a non spegnersi mai. Forse Mrs Dalloway sa che esiste ancora una luce in fondo alla sua anima, ma è troppo calata nel suo ruolo per uscirne, diversamente dalla sua autrice che il coraggio lo trova qualche anno dopo.

Per iniziare a spararle grosse e provocare in libertà, in particolare su argomenti politici, Morrissey ha dovuto “uccidere” il gruppo che ha fondato e con esso il cognome che aveva scelto per rappresentare un certo tipo di Inghilterra.

Come dire che finché ti chiami Smith, è dura poter dimostrare chi sei e cosa vuoi veramente, anche se hai una voce magnetica, sei accompagnato dal meraviglioso sound jangle della chitarra di Johnny Marr e hai influenzato (con i Beatles, scusate se è poco) quel Brit Pop inglese di cui sentivo parlar male tutti i critici degli anni ’90 (parlavano bene solo dei Radiohead, manco a dirlo) ma che spopolava in classifica e nell’immaginario dei ragazzi come me.

Septimus Smith ha fatto la sua scelta, Morrissey anche. Mrs Dalloway invece sembra non averne. D’altronde è convalescente dall’influenza spagnola, se non l’avete ancora capito. La Woolf la consegna alla storia della letteratura così, con addosso gli eterni postumi di una pandemia che non l’ha uccisa fisicamente ma le ha solcato l’anima. Gli stessi segni che ci porteremo dietro tutti noi, chi più lievi, chi più profondi: su “Il Foglio” del 25 aprile 2020 Annalisa Benini diceva che “Siamo tutti Mrs Dalloway”. Tutti non lo so, ma alcuni certamente sì.

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