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Gamberale e Calcutta: il racconto di vite (non) straordinarie

Oggi il collegamento del nostro angolo è fra due giovani autori italiani e sul loro modo di raccontare il mondo. Chiara Gamberale e Edoardo d’Erme, in arte Calcutta, parlano di vite (non) straordinarie.

Nessuna epifania del quotidiano: piuttosto frammenti di vita, pensieri e parole sussurrate che nei loro testi e brani assumono un insospettabile valore poetico.

Se Calcutta ha fatto di una pigra quotidianità il suo marchio di fabbrica (“Frosinone”, pezzo corale e liberatorio del suo primo album, parla di un ragazzo che ha fatto non si sa quale sbaglio e vuole solo rifugiarsi a casa per vedere un film), anche Chiara Gamberale in “Per dieci minuti” sembra volerci ricordare che la nostra vera dimensione è nella felicità delle piccole cose. La rivincita di una donna ferita, dolorante dopo una storia d’amore finita, avviene giorno dopo giorno, attraverso l’autodisciplina, che la porta ad imparare qualcosa di nuovo. Ecco che troviamo la protagonista ballare, cucinare, passeggiare: ogni situazione è un mettersi in discussione e un passo verso la rinascita definitiva. La rabbia non è mai in primo piano: piuttosto c’è un dolore sordo che tradisce insicurezza e porta alla ricerca di un luogo sicuro, come il divano davanti alla tv in casa di Calcutta. Tuttavia è proprio nel superamento dei propri timori che la protagonista riprende il controllo, cosa ben più importante della riconquista dell’amore di un uomo: l’unico modo in cui Chiara Gamberale può farla tornare a sorridere è attraverso il ritorno ad una gestione serena della routine.

Una volta mi è capitato di ascoltare un’intervista di Manuel Agnelli a Chiara Gamberale, durante la trasmissione “Ossigeno”: mi ha colpito la sua semplicità, la sua timidezza, come se si sentisse un po’ fuori posto visto che i suoi libri non sembrano raccontare storie così particolari.

Spesso la forza di un’estetica letteraria o musicale sta proprio nell’elevare a forma espressiva quello che l’uomo comune non riesce a vedere, pur avendolo davanti agli occhi. 

Lo stesso si potrebbe dire di Calcutta, che certo oggi risulta sempre più a suo agio nelle emittenti radiofoniche commerciali, ma che nei primi due album ha mostrato una sua linea definita, con riferimenti musicali che affondano nella musica pop e autoriale italiana, dall’ “anima latina” di Battisti al giovane Carboni. Ma se le sue sonorità sono semplici e allo stesso tempo esotiche, i suoi testi mantengono un basso profilo, giocano con le parole (il suo idolo è Nino Frassica)  e sembrano sempre alla ricerca del dettaglio anche più impensabile: la saliva, i peli, i nei. “Evergreen”, il suo secondo disco, parla spesso di amori finiti, evocandoli attraverso ricordi intimi (“Orgasmo”) o accennando a piccole fitte di dolore giornaliero, senza però fare chissà quale rumore (“Pesto”). Più che nella hit “Paracetamolo”, dove troviamo invece il racconto un amore che nasce, è nel pezzo dedicato a Dario Hubner che viene fuori l’avversione di Calcutta verso i primi della classe. Per chi non lo sapesse, Hubner era un calciatore, bomber di squadre di provincia degli anni ’90, fumatore e bevitore da buon montanaro, che però vinceva regolarmente la classifica marcatori in serie A contro gente del livello di Ronaldo, Zidane o Batistuta. Eppure restava sempre nel limbo dei (non) straordinari, come una sorta di intruso a cui nessuno faceva caso rispetto a quei campioni ricordati ancora oggi.

Sarebbe riduttivo ricondurre tutto a una sorta di “rivincita degli sfigati”, tema trito e ritrito in molti libri e film di cassetta. Di certo la Gamberale e Calcutta preferiscono raccontare le storie di chi si emoziona per le cose semplici, vince piccole (grandi) battaglie e ama vivere la vita senza stare sotto le luci della ribalta. D’altronde, dov’è scritto che è obbligatorio essere sempre al centro dell’attenzione? Io, per dire, adesso “vi giuro che torno a casa e mi guardo un film”.

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