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Cecità di Saramago: la distopia è diventata realtà?

In questi giorni si è parlato di cinema e letteratura del contagio, quasi si dovesse cercare un vincitore fra chi (scrittori o registi di turno) era andato più vicino a prevedere lo scenario che stiamo vivendo oggi.

Saramago, Danny Boyle, Tucidide, il film Cassandra Crossing.
Le città improvvisamente svuotate, le persone chiuse in casa per un vitale senso di autodifesa, un governo centrale da cui ci si aspettano regole chiare e precise, il terrore della trasmissione di un virus che potrebbe essere letale.

La distopia è diventata realtà.

Chi ha letto “Cecità” di Saramago potrebbe dissentire, visto che il mondo descritto dall’autore portoghese pare ancora lontano dalle nostre città un po’ più deserte del solito. Sono certamente diversi gli scenari, più marcati in senso apocalittico nel romanzo, ma non i sentimenti delle persone che vivono il timore del contagio improvviso di un virus che ferma la vita. Prima il panico di chi (in “Cecità”) si trova un “mare bianco” di fronte agli occhi, poi la sensazione che il male si possa ancora scacciare, visto che non tutti sono ancora infetti.

Questa se ci pensiamo bene è la prima divisione, la prima barriera: noi e gli altri, i sani e gli ammorbati da isolare, che se la vedano fra sé. Ogni giorno però sempre più persone si ammalano e piano piano inizia a serpeggiare l’idea che per l’umanità non c’è più scampo. Allora l’uomo che fa? Anziché unirsi per combattere il mal comune, si divide ancora di più: prima cerca il possibile untore giusto per puntare il dito contro il colpevole, poi cerca l’annullamento dell’avversario in senso morale e fisico.

La prima parte di “Cecità” è il racconto di una quarantena. Gruppi di ciechi vivono in un enorme ex manicomio dismesso, tenuti a bada da soldati vedenti che hanno il compito di sparare a chiunque osi anche solo avvicinarsi a loro o scappare. Il Governo, che parla ai ciechi attraverso annunci simili a quelli del Grande Fratello di Orwell, ha deciso di riunire tutti coloro che sono diventati ciechi n un ambiente sicuro, isolato dal resto della società. I cittadini contagiati capiranno e collaboreranno, ripete la voce registrata. In realtà quello che i ciechi vivono dal primo giorno è un isolamento votato all’annientamento: non vengono assistiti né curati dai sani per paura del contagio e il poco cibo che ricevono viene lasciato all’entrata del palazzo, senza che possa esserci alcun contatto col mondo esterno. Vanno a tentoni, si scontrano fra loro e in breve tempo rendono l’ambiente malsano anche per i bisogni corporali che naturalmente non riescono a espletare in luoghi consoni.

In tutto questo c’è una persona che incredibilmente vede. Si tratta della moglie del medico, donna che non ha un nome, perché tutti i personaggi di Saramago si chiamano così: il medico, l’uomo dalla benda nera, la ragazza dagli occhiali scuri, il primo cieco (che sa tanto di paziente 1), il ragazzino strabico, addirittura il cane delle lacrime. Lo scrittore, personaggio che compare nell’ultimo capitolo in una sorta di cameo dell’autore stesso, svela che ai ciechi non serve un nome proprio, perché insieme alla vista hanno perso gran parte della loro umanità.

Attraverso i suoi occhi, la moglie del medico accompagna il lettore in un viaggio nel degrado che vede intorno a sé, nella perdita di ogni dignità umana, nella progressiva accettazione di una realtà che li vede condannati in eterno. O forse no.

La prima parte del romanzo è una vera e propria discesa agli inferi, in cui si combatte per puro attaccamento alla vita: prima contro i soldati, che non hanno problemi a uccidere diversi ciechi, poi contro un gruppo di ciechi usurpatori, che vogliono cibo e potere tutto per sé. Nella lotta tremenda contro questi ultimi vengono descritti tutti i peggiori istinti dell’uomo, in una sorta di dizionario della bestialità. Alcuni episodi sono davvero di difficile accettazione, proprio perché Saramago ci mette di fronte ad aspetti della natura umana che non vorremmo mai vedere. Alcune scene sono riportate con un sano realismo, anche se l’interesse principale dell’autore è sempre sul bisogno dell’uomo: ad esempio su quello che si può arrivare a fare quando si ha fame e non si ha da mangiare, oppure quando si ha il potere di ricattare il prossimo avendo la certezza di restare impuniti.

La seconda parte del romanzo sembra un ritorno alla vita e alla libertà: la moglie del medico rivela a tutti che ci vede, quindi diventa la guida di questo strano gruppo di ciechi attraverso una città sconvolta.  Nelle case e per le strade mancano i beni primari, o meglio quelli che diamo per scontati nelle nostre vite di tutti i giorni. L’acqua potabile, il cibo, una doccia calda, il fuoco con cui riscaldare le vivande: nel mondo non c’è più nulla di tutto questo. Per non parlare poi delle normali attività umane: troppo davvero per paragonarlo a quello che viviamo oggi, si potrebbe pensare. Forse è davvero materia da romanzi pensare a questo tutto insieme, ma in questi giorni non stiamo forse vivendo anche noi un senso di perdita rispetto a quello che diamo per scontato?

Non andrò oltre sulla vicenda, per non togliere il gusto a chi vorrà accostarsi a questo romanzo. E’ stata profetica mia suocera, insegnante di lettere in un liceo di Siracusa, quando ha deciso di farlo leggere agli alunni in preparazione alla maturità. Non poteva sapere che sarebbe tornato di prepotente attualità in quanto “letteratura del contagio” al pari di Camus, Manzoni e Bufalino.

In Cecità ci sono tuttavia argomenti da leggere fuori di metafora che lo rendono adatto a qualsiasi momento storico viva una società moderna.

Saramago descrive la miopia di molti governanti, il cinismo che ha l’uomo nell’isolare il proprio simile, la tendenza a dividersi in gruppi, la violenza in assenza di regole, la necessità di una guida illuminata che fondi la società da zero dopo che l’umanità ha raschiato il fondo del barile. Il tutto ce lo racconta con uno stile di scrittura quasi che sconfina nello stream of consciousness,  con poca punteggiatura, senza a capo o virgolettati per i dialoghi. Lo adoreranno gli amanti di Svevo, Joyce e Celine, oppure quelli che in “Arancia Meccanica” di Burgess non hanno visto solo le violenze di un gruppo di ragazzini, ma una ricerca sulla natura umana.

Lo apprezzeranno anche tutti coloro che pensano alla letteratura non solo come un’evasione, ma come visione alternativa di un mondo che, per ambire a essere migliore, ha bisogno di immaginarsi ancora più brutto e malato di com’è.

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