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E quindi uscimmo a riveder le stelle: miracoli da Dante a Dalla

Il collegamento di questa settimana è nell’emozione della rinascita. Lo sappiamo bene che non sarà semplice tornare nei bar e nei ristoranti, a chiacchierare davanti ad un buon caffè, a iniziare la giornata con cornetto e giornale o a finirla con un aperitivo. Però si potrà fare. La scelta starà a noi. Fine della cattività.

Abbiamo visto, nei nostri racconti domenicali, come la chiusura per molti autori abbia significato un percorso interiore, che ha avuto sfogo nella forma d’arte letteraria e musicale. E’ stata una situazione a cui ognuno di noi è stato costretto contro la propria volontà, ma a tutti nella vita è capitato di sentirsi prigionieri anche in situazioni (chiamiamole così) di vita ordinaria: il lavoro che opprime, un amore finito malamente, un lutto inaspettato, la retta via che si smarrisce. Sì, spesso avviene proprio nel mezzo del “cammin di nostra vita” e l’inferno che viviamo, in qualunque modo esso venga raccontato, è in realtà un lungo percorso in cui la ripresa di consapevolezza di se stessi corrisponde all’elaborazione del lutto, al superamento del dolore o alla ricchezza della crescita che abbiamo ottenuto. In questo modo riusciamo a dare un valore concreto non solo a noi, ma anche alle persone che ci hanno fatto da guida durante la prigionia, a nostri Virgilio.

Non so chi sia stato il cicerone di Lucio Dalla, forse la musica stessa, forse un amore mai detto esplicitamente, ma nell’album che porta il suo cognome, pubblicato nel 1980, c’è davvero tutto il senso di una rinascita. In “Com’è profondo il mare” del 1977, aveva segnato la conclusione del suo sodalizio artistico con il poeta Roberto Roversi, autore dei suoi testi nel periodo degli anni di Piombo. Quale allegria, si chiedeva l’artista bolognese: il senso di oppressione che si celava nel suo animo era chiaro anche per l’ascoltatore.

Già negli album “Lucio Dalla” e “Banana Republic” si intuivano i segnali di una fase 2, ma è con “Dalla” che l’artista esprime chiaramente che il periodo peggiore è alle spalle. Fin dall’inizio esorta un ballerino a ballare, ci parla del mambo, dedica una canzone indimenticabile alla leggerezza di una donna (“Tu corri nel vento e sembri una farfalla”, l’immagine ideale per una qualsiasi Beatrice!) ma è soprattutto ne “La sera dei miracoli” che capiamo che il peggio è passato.

E’ un inno alla rinascita, Roma che riparte con i suoi artisti e le piazze di persone, tanto da poter essere centomila in uno stadio, la gente affolla i bar e i ristoranti.

L’immagine è bellissima, un quadro in movimento, o un frame di un film di Fellini se preferite: “si muove la città, con le piazze, i giardini e la gente nei bar”. C’è sempre un fondo di malinconia, ricorda che ci sono anche i delinquenti, “non bisogna aver paura ma stare un poco attenti”, ma davvero si cerca  il pelo nell’uovo: l’allegria è ovunque.

Non è certo il Paradiso, anzi quello che c’è fuori  assomiglia più a un Purgatorio, con le preoccupazioni soprattutto economiche che affliggono i giorni nostri. Però lo sa Lucio e lo sappiamo tutti noi: le insidie più spaventose del duro cammino che abbiamo svolto sono tornate nella selva oscura.

Dante e Lucio Dalla, che paragone!

Forse azzardato, divisi da 700 anni e dal passo della Futa. Però trovatemi un’immagine più calzante da un punto di vista letterario di quella “Divina Commedia” che studiamo (e forse un po’ odiamo) a scuola, di tutto il difficile percorso che il poeta vive (o sogna) appena comprende di aver perso la bussola della propria vita.

Tutti ricordiamo l’inizio dell’opera, le bestie, Caronte, l’incontro con il poeta Virgilio e le continue lodi all’amata Beatrice. Ogni canto è un anatema (toscano il ragazzo, non scordiamocelo) contro Firenze, la Chiesa o qualcuno che gli ha fatto un torto, ma quello che mi ha sempre fatto amare l’Inferno di Dante è il suo aspetto più semplice, più pop se volete: ce la farà quest’uomo a liberarsi dal suo male interiore? Quale miglior domanda poteva farsi un liceale negli anni ‘90, o un uomo che ha la sua impresa e la sua famiglia nel 2020, alla fine del lockdown.

A volte basta un’immagine per ottenere una risposta, far scoppiare qualcosa nello stomaco e rendere tutta la potenza di un sentimento: si può non amare Dante e non avere mai letto una sola riga de “La Divina Commedia”, ma nelle ultime terzine dell’ Inferno c’è tutta la gioia della rinascita, tutto lo stupore di un uomo che capisce che ogni condizione di male alla fine è transitoria:

“Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d’alcun riposo,                                 

salimmo sù, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle

che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.”

L’ultima immagine la vediamo davanti ai nostri occhi, come fosse un quadro, un affresco in una chiesa, una di quelle opere meravigliose per cui dobbiamo alzare la testa e torcerci il collo per ammirarla in tutta la sua bellezza. Non serve aggiungere altro. Il Giudizio Universale di Michelangelo, ma meno inquietante, in una sera che fa miracoli.

 

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