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“Il nome della Rosa” da Eco ai Radiohead: vade retro trash

“Il Nome della Rosa” di Umberto Eco e “Kid A” dei Radiohead, cosa potrebbero mai avere in comune? Sono entrambi un monito per i nostri studenti, perché sono il perfetto esempio di come lo studio e la ricerca applicati ad un argomento possano essere sinonimo di riconoscimento della critica e di successo commerciale. Due casi in cui la cultura davvero dà da mangiare, oltre la musica dozzinale che accompagna le nostre estati, oltre la letteratura usa e getta che cavalca il tema del momento, spesso in modalità trash.

L’edizione de “La Nave di Teseo” è quanto di più prezioso possa esserci per chi, come vi scrive, si è laureato all’ Università di Bologna in una facoltà inventata dal nulla proprio da Umberto Eco e per chi, come chi ci ospita su queste pagine, in quella antica Università oggi ci lavora (che vanto, vero Viviana?). Il mio primo incontro con Eco tuttavia non è stato di amore a prima vista: avevo 10 anni quando scoprii per la prima volta “Il nome della Rosa” grazie al film di Jean Jacques Annaud che aveva come protagonista Sean Connery.  Non ne rimasi impressionato, tutt’altro. Un po’ metteteci il fatto che non riuscivo a vedere James Bond nei panni di un frate, un po’ per l’inclinazione infantile di voler trovare una spiegazione a ogni cosa (a partire dal titolo del romanzo, che un senso vero non ce l’ha) , un po’ perché le storie di delitti mi avrebbero catturato nel corso del tempo. Non solo: negli anni mi sarei levato il cappello di fronte a chi, come Umberto Eco, la storia è stato capace di studiarla, riscriverla, raccontarla con un difficile mix di cronaca, rispetto ed ambizione. Non è da tutti infatti ambientare una vicenda in tempi così lontani rispetto a quelli in cui si scrive. Per muoversi su terreni così poco familiari occorre aver approfondito non solo i grandi eventi che hanno segnato le epoche passate, ma anche gli usi e costumi dei popoli che hanno vissuto in quegli anni. Ecco perché derubricare “Il Nome della Rosa” a semplice giallo o romanzo storico non renderebbe in pieno la portata di quest’opera. Gli appunti di Eco lo dimostrano. Il mestiere dello scrittore è fatto sempre di ricerche in solitudine, perché anche il contesto vuole la sua parte, ma solo uno studioso puro come lui avrebbe potuto raggiungere i livelli necessari a concepire una trama così complessa e articolata.

Qui non si tratta solo di gusto del dettaglio, che è comune ai perfezionisti e agli esteti anche mediocri: ne “Il Nome della Rosa” c’è la vera conoscenza, il sapere nudo e crudo, una cultura sconfinata che si è tradotta in un successo commerciale senza precedenti.

Lo stesso discorso si può fare per i Radiohead, uno dei gruppi musicali più importanti di sempre specie per il panorama pop rock attuale. Avete capito bene, di sempre. E ve lo dice uno che negli anni ’90 non li amava per preconcetto, perché mi sembrava si beassero della loro bravura.

Non è possibile  ricondurre la musica dei primi album dei Radiohead ad un unico genere musicale: è un misto di rock, pop, punk, elettronica, trip hop, Rem, Smiths, Joy Division e chi più ne ha più ne metta.

Se vi piacciono i Muse e i Coldplay oggi, se amate l’indie rock inglese e in Italia apprezzate il mood interpretativo di Diodato, è perché di Radiohead ne hanno ascoltati a palate. Album come “Kid A” del 2000, ultimo meraviglioso capitolo di una fase creativa iniziata nel 1994 con “Pablo Honey” e passata per “The Bends” e “OK Computer” (quest’ultimo l’album più bello degli anni ‘90 per gli ascoltatori della BBC, non proprio gente a digiuno di buona musica), sono frutto di uno studio talmente importante da poter essere definito esso stesso cultura. Non solo perché ciò che influenza quanto viene dopo ha valore divulgativo in sé, ma proprio per la complessa ricerca affrontata dal gruppo sia a livello musicale che di storytelling. Il “ragazzo A” di cui si parla nel disco non è altro che un essere umano clonato, tema caldissimo a inizio millennio. Non troverete pezzi come “High and Dry”, “Fake Plastic Trees” o “Karma Police” in questo album, classicissimi che ormai travalicano nel pop, ma un’atmosfera quasi mistica, perfetta accompagnare se volete la lettura de “Il Nome della Rosa”. Anche la copertina del disco, con un artwork che raffigura vette innevate, ci riporta al freddo del monastero in cui si svolge il romanzo.

Una lettura importante accompagnata da un disco che lo è altrettanto, da affrontare non prima di aver assaporato tutto il lavoro “dietro le quinte” da parte di Umberto Eco e – perché no – qualcosa anche della scena musicale degli anni ’90. Non sarà difficile capire che studio e popolarità, conoscenza e massa, qualità del prodotto e alto numero di vendite non sono affatto concetti opposti. Nella letteratura, nella musica come nel nostro lavoro di ogni giorno.

Vade retro, maledetto trash.

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