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Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana

Quando ho finito di leggere l’ultima pagina de Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, classico verista della nostra letteratura italiana, ho provato una sensazione mista a nostalgia, angoscia, sollievo.

Nostalgia della mia Sicilia, perché sono molto suggestive le descrizioni dei luoghi in cui vivono i personaggi de Il Marchese di Roccaverdina, dalle parti di Catania, non lontano dall’Etna, tra campi arsi dal sole e profumo di fichi d’India.

Angoscia per la fine rassegnata dei protagonisti principali.

Sollievo per due motivi: uno perché l’ho amato (si sa, certi classici mettono un po’ di soggezione, all’inizio), l’altro perché si è placata la mia ansia nel vivere le storie di Antonio il Marchese di Roccaverdina, della femina del marchese Agrippina Solmo, della moglie Zòsima, e di tutti gli altri personaggi che ruotano intorno alle voci di paese, tra superstizioni, religione e credenze varie.

Come anticipato in un approfondimento che ho dedicato al Verismo per il percorso di lettura #20autoridellaletteraturaitaliana, ne Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, pubblicato nel 1901, in un’epoca matura dell’autore, troviamo già i tratti principali della corrente verista che raggiungerà il suo culmine con Giovanni Verga. Non per niente Capuana e Verga erano amici, siciliani come De Roberto (nato a Napoli ma cresciuto a Catania, dove è poi morto) e rappresentanti di un’epoca letteraria che risente molto dei cambiamenti sociali e culturali, rispondendo alla richiesta urgente di un pubblico desideroso di leggere opere accessibili a tutti, e cioè testi narrativi.

Ma di che romanzi parliamo? Qual è la loro principale caratteristica verista?

Parlando de Il marchese di Roccaverdina, è già molto evidente l’aspetto realistico e quindi la condizione sociale della Sicilia in cui vive l’autore, la realtà contadina e feudale, le usanze e credenze superstiziose e religiose, le abitudini, i modi di dire, la disperazione di fronte alle malattie o alla siccità, la distanza tra i benestanti e i sudditi.

“La volontà di Dio qui non c’entra niente. Dio non può permettere questa enormità; non può volere che la figlia di una raccoglitrice di ulive diventi marchesa di Roccaverdina.

PARES CUM PARIBUS…
Perché dunque Gesù Cristo ha voluto nascere da una madre di stirpe reale? San Giuseppe, falegname, fu padre putativo, soltanto”.

Leggendo questo passo ho riso da morire.

Per non parlare di certi modi di dire che, dovendo riprodurre il linguaggio realmente utilizzato, mi hanno ricordato tantissimo i miei nonni.

“Che c’è? L’opera dei pupi?”
Classico modo di dire, in Sicilia, quando la gente si ferma a guardare e ascoltare i fatti altrui.
Camilleri, per esempio, lo usa tantissimo nei suoi romanzi con Montalbano.

Oltre all’aspetto realistico, ciò che colpisce in questo romanzo e che si vedrà anche nelle opere di Verga e De Roberto, è la presenza di esemplari umani di VINTI, innanzitutto il marchese stesso che viene sconfitto dal suo disegno di assicurarsi l’amore e la fedeltà dell’unica donna da lui amata. Più cercava di odiarla, più l’amore si radicava nella sua anima. Alla fine morirà solo e pazzo.

Agrippina Solmo è vinta dalla sua stessa condizione. Non può che rassegnarsi ai voleri del marchese e della società che le vieta di poter restare fino alla fine davanti al capezzale dell’uomo, ormai inebetito e furioso di pazzia, nonostante sia stata l’unica ad assisterlo con sincero amore finché le è stato concesso.

E Zòsima? Oh cara donna! Sconfitta anche lei, ovvio.
Però devo ammettere che, alla fine, mi sono ritrovata ad ammirarla, incitarla con orgoglio femminile e fiducia.
Nonostante i tempi e le usanze del periodo (non sia mai che una donna lasci il tetto coniugale!), Zòsima non si è lasciata intimidire da niente e nessuno.
Ha parlato schiettamente al marito sin dalle prime avvisaglie di un amore non realmente corrisposto, di una minaccia latente da parte di una donna assente ma evidentemente molto presente nel cuore del marchese.
Una donna che rende il suo “ormai” forte di una decisione senza la possibilità di tornare indietro, per non accettare ulteriori rifiuti e umiliazione.
Mi ha colpito.

Un romanzo tragico con qualche venatura di giallo, un classico che ci porta dritti nella Sicilia di fine ‘800 e che ci fa dire:

“Con la scusa della ragione, facciamo però tante cose irragionevoli”.

Super consigliato. Se volete seguire il percorso con il gruppo di lettura non dovete fare altro che unirvi su Telegram.

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