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Lontano dagli occhi, senza possibilità di scelta

Immaginavo che “Lontano dagli occhi” fosse un libro molto triste, ma non credevo fosse scritto così bene e che la scrittura di Di Paolo fosse tanto poetica e profonda. E’ il primo libro che leggo di questo scrittore e, oggi, so che voglio scoprire anche il resto delle sue opere.

Ogni parola in questo libro lascia un segno, ti porta a riflessioni che altrimenti non faresti mai, ti catapulta in una realtà che esiste e a cui forse non si presta spesso attenzione.

Quello che mi ha colpito di più è il fatto che l’autore, solo alla fine, svela il mistero dei suoi racconti, i personaggi e il suo modo di immaginarli, per dare una spiegazione all’abbandono che ha vissuto o forse semplicemente per guardarlo con distacco.

Mi ha commossa tantissimo, mi sono proprio sentita infagottata in una copertina, lasciata davanti a un istituto. Ho provato tutte le emozioni vissute dall’autore e ho percepito ogni suo attimo di vita, da quando è stato

“Affidato ad altre mani, estranee e sollecite – di infermiere, di suora. Pronte in ogni caso a farsi carico di un nuovo venuto al mondo”

fino alle sue ultime parole:

“Il futuro adesso arriva adesso, ed è il miglior che io possa avere”

Mi ha fatto tanta tenerezza.

Ho inoltre apprezzato l’ambientazione anni ‘80, l’assenza degli attuali mezzi di comunicazione, il telefono a gettoni, la possibilità di sparire senza lasciare tracce, l’incertezza politica di quegli anni (la storia si concentra in tre mesi, del 1983), l’accenno a fatti di cronaca che purtroppo ancora oggi restano un mistero (la scomparsa di Emanuela Orlandi).

Mi ha fatto riflettere anche su alcuni aspetti sociali di quel periodo e che vengono a galla nel mezzo della storia: la totale assenza di dialogo tra genitori e figli, la paura di mettere a nudo pensieri e sentimenti con chi ci ha messo al mondo. Chissà se oggi è ancora così? Chissà, inoltre, se Di Paolo ha immaginato le vite dei suoi protagonisti così per giustificare, in qualche modo, le loro scelte obbligate…

Tutti abbiamo bisogno di appropriarci delle nostre radici, buone o brutte che siano. 

“Niente ci accomuna come “l’essere figli” ed è con questa consapevolezza, ma con anche il distacco necessario, che l’autore affronta una storia che non è solo la sua.
Ha magistralmente raccontato le paure e i desideri di tutti, il bisogno di conoscere la nostra origine anche se perduta un attimo dopo essere venuti alla luce.

Stupenda l’immagine del neonato, avvolto non dal seno materno ma circondato da una folla di sconosciuti.

“Quella folla di sconosciuti sarà la prima frontiera dell’umanità circostante. È costretto a fidarsi, non ha altra scelta”.

Commuovente la presa di coscienza, forse oggi non più dolorosa, che

“Sarà più lungo il tempo di reciproca distanza che quello di prossimità. Nove mesi e un attimo. Nove mesi e un giorno, molto vicino al cuore, nei suoi effettivi pressi. Una vita intera, lontano dagli occhi”.

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