Vincitore del Premio Strega nel 1981, sono riuscita a leggerlo entro l’anno grazie al mio gruppo di lettura #inattesadelpremiostrega
Senza gruppo, credo che avrei continuato a rimandarlo. Perché, poi?
Non so, Il nome della rosa mi ha sempre fatto paura e messo un po’ di soggezione.
E invece…
A parte lo scoglio iniziale e i tanti termini latini (persino parti intere) ed eruditi (così com’era il nostro grande prof. del DAMS), il romanzo è riuscito a coinvolgermi sin dalle prime pagine per l’aura di mistero di cui è intrisa ogni sua pagina.
Già il fatto stesso che Eco spieghi, nella sua introduzione, di aver preso le mosse da un manoscritto ritrovato, opera di un monaco di nome Adso da Melk è molto affascinante e ricco di pathos.
E così ci si mette in cammino con il giovane Adso la cui voce, da giovane, si alterna a quella da anziano, dato che narra in prima persona i fatti vissuti da novizio, nel 1327, in un’abbazia del nord Italia non lontano dalla Francia, in compagnia del proprio maestro Guglielmo da Baskerville.
Per sette giornate, scandite dai ritmi della vita monastica, si assiste a un crescendo di situazioni, misteri, complotti, uccisioni misteriose che Adso e il maestro Gugliemo cercheranno di risolvere.
Senza entrare nei dettagli della storia, dico solo che per me è stato un bellissimo tuffo in epoca medievale, tra monaci dell’ordine francescano e benedettino, ai tempi delle lotte tra impero e papato e delle persecuzioni di eretici e ordini minori.
La biblioteca dell’abbazia è ricettacolo di misteri, un labirinto in cui si protegge un libro in particolare…Ma quale? E perché?
In un’abbazia in cui “si respira aria di reticenza, tutti tacciono qualcosa….“, Adelmo, Venanzio, Berengario vengono uccisi. Da chi? Come? Cosa sapevano? Quale libro custodivano…?
Vi lascio con un indizio:
Ho letto questo libro nella bellissima edizione arricchita coi disegni e gli appunti preparatori dell’autore, pubblicata quest’anno da La Nave di Teseo, casa editrice fondata dallo stesso Eco.
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