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Pauravirus, atto II: Manzoni, Baglioni e l’abbraccio di tutti noi

Abbiamo parlato già nel nostro angolo di domenica scorsa di letteratura del contagio e visioni distopiche della società, abbinando un capolavoro come “Cecità” di Saramago (che in questi giorni sto leggendo non senza disturbo)  alle visioni del futuro che hanno musicisti inglesi come gli Elbow e i Muse. Per questa settimana avevamo già pronto il nostro abbinamento,  ma visto come sono precipitati gli eventi nei giorni scorsi abbiamo pensato di dedicare una seconda puntata al tema “Pauravirus”. Sperando che sia l’ultima.

Questa volta restiamo in Italia, fra Milano e Roma: al nord Alessandro Manzoni, nella capitale Claudio Baglioni. Due autori che personalmente non amo. A Manzoni negli anni scolastici preferivo altri scrittori, mentre Baglioni è lontano dai miei gusti musicali e fa parte della nostra collezione di vinili perché uno dei preferiti di Viviana. Si tratta di due autori che, come a volte accade nella nostra rubrica, non sono contemporanei, eppure il filo che li unisce c’è: la presa che hanno sul popolo, anche quello meno interessato a libri e musica. Che si apprezzino o meno, che ci piaccia pensare di risciacquare i nostri panni in Arno o ci facciano impazzire i ricordi di baci a labbra salate, tutti noi conosciamo quali sono stati i loro bestseller e le storie in essi raccontate.

In questi giorni l’Italia è in una situazione di emergenza che sicuramente nessuno di noi aveva affrontato prima:  il popolo (cioè “noi”) è l’attore principale del momento, non soltanto per le proprie paure, ma anche per i comportamenti da tenere nei confronti degli altri. Ascoltiamo politici e le istituzioni con spirito speranzoso e critico, aspettiamo risposte alle nostre domande e regole chiare, tuttavia abbiamo già la consapevolezza che la situazione è più grande di loro e di noi.

Il popolo è impaurito, contagiato, messo in quarantena, senza cibo: nei luoghi ormai isolati dal resto d’Italia la storia viene scritta dalle vicende delle persone comuni, oltre l’immobilismo forzato.

Il popolo è quello raccontato da Manzoni ne “I promessi sposi”, a proposito della peste di Milano. Fa un certo effetto leggere che l’articolo riportato sul “Il Foglio” di questo weekend è firmato dallo stesso autore. In realtà non è altro che un estratto dei capitoli XXXI e XXXII del suo romanzo, in cui interrompe la storia di Renzo e Lucia per riportare, quasi da giornalista di cronaca, gli eventi dell’epidemia che aveva colpito la sua città quasi due secoli prima rispetto alla stesura de “I promessi sposi”.

La prima constatazione che possiamo fare riguarda la somiglianza di alcune situazioni in vecchie e nuove pandemie. I politici cercano di tenere nascoste le reali dimensioni della pestilenza di Milano (ancora Lombardia,come oggi), un po’ per non far scatenare il panico, un po’ per incompetenza. Quando la situazione scoppia in tutta la sua forza, si scatena la caccia agli untori: il popolo si sente ingannato e ci mette un attimo a diventare feroce, senza controllo, carnefice perché vittima della sua stessa paura. Una sorta di distopia reale, che ha nasce in qualsiasi situazione per l’uomo manchi il controllo del proprio destino. In questo capitolo di pura cronaca, Manzoni fa riferimento a episodi reali, anche di gente che guarisce, che sembrano gli stessi raccontati oggi nelle pagine dei quotidiani o nei servizi delle tv.

Nella sindrome da contagio, che porta al rischio concreto che l’uomo possa trasformarsi nel primo accusatore o carnefice del vicino di casa, ci sono le storie quotidiane, quelle che ancora non sono state raccontate ma che ci auguriamo lo saranno presto, anche per non farci vedere tutto nero. Ci sono storie di dolore in cui le catene di contagio nascono dai sentimenti: pensiamo al primo caso di Coronavirus italiano,  il cosiddetto “Paziente 1”: è unito a sua moglie incinta all’ottavo mese dallo stesso destino,  che speriamo non debba essere tragico fino in fondo per tutti e tre.

Un Renzo e una Lucia ai quali molti hanno già affibbiato l’etichetta di untori, incoscienti, inconsapevoli, ingenui nel migliore dei casi.

“Perché non hanno parlato subito di legami con gente che era stata in Cina?” è la considerazione più comune, scritta di pancia prima che fosse appurato che non è stata la cena con il manager rientrato dall’Oriente a dare inizio al contagio. Non so se voi avreste avuto la lucidità di ricordarlo, con 40 di febbre e problemi a respirare: quello che è certo è che sono le prime vittime a cui forse dovremmo rivolgere uno sguardo di compassione, non di odio. Lo stesso sentimento di pietà che Renzo rivolge a Don Rodrigo, citando ancora una bellissima immagine suggerita da Nadia Terranova sempre su “Il Foglio” di alcune settimane fa.

Mi piace pensare che quella coppia di ragazzi lodigiani un giorno possa riunirsi come Renzo e Lucia, alla fine di eventi che li hanno visti divisi e uniti anche al tempo dell’epidemia.

Cosa c’è allora di più romantico, italiano, popolare che regalargli un brano di Baglioni in sottofondo, un “assolo” di pianoforte, le parole di un cantautore che ha saputo celebrare l’amore forse nella sua forma più semplice?

Chi se ne frega se a me non piace: nei momenti in cui il quadro è pessimo e il nemico è invisibile, stringersi in un caldo abbraccio può essere confortante, per ricordarci che siamo vivi e che il peggio prima o poi passerà, come tutte le calamità della storia. Sarebbe l’abbraccio di tutti noi.

“E se del domani nessuno ha la certezza, io son Nessuno e tu Domani.” (Stai su – Claudio Baglioni)

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